Un augurio che viene da lontano

di Gianluigi CameraDedico questa storia vera a tutti gli alunni con l'augurio di incrociare nel loro percorso scolastico tanti insegnanti come Miriam Allan. E a tutti i docenti di essere ricambiati nel ricordo come successe a Miriam Allan.

Le pareti dell'aula erano nude, bianche di un bianco sporco, crivellate dai buchi degli spezzoni incendiari. Alle finestre molti vetri sostituiti con fogli di legno compensato. Intorno la desolazione di macerie di case ancora grondanti il dolore dell'ultima guerra mondiale.

Era l'autunno 1946 e la scuola media Costantino Nigra era sistemata al piano rialzato dell'edificio che ospitava, ieri come oggi, in corso Tassoni a Torino, il liceo classico Cavour.
Comparve un giorno sulla parete dell'aula della 1ª E una macchia di colore: un cartello posto non so da chi, che, col pretesto di promuovere l'igiene orale, propagandava la marca di un dentifricio.

Entrò in aula la professoressa di lettere e con la sua indimenticabile dolcissima voce sussurrò:
“Ragazzi, per favore, togliete quel cartello, a scuola non si fa propaganda commerciale”.

Un episodio banale, emblematico però per indicare come accanto all'opera intensa di ricostruzione materiale della città dal caos della guerra, si tentava nella scuola un'opera parallela di ricostruzione delle coscienze, di riscoperta di una scala di valori, di rifondazione dei principi di civile convivenza dopo l'ubriacatura della retorica bugiarda e della falsa propaganda.
La protagonista di quell'episodio - ripeto - apparentemente insignificante era Miriam Allan, figura esemplare di docente.
Ispirava al tempo stesso fiducia e rispetto, affetto e venerazione. Aveva superato la trentina; verrà a mancare a quarantun anni nel 1952. Un viso sereno e mite incorniciato da una aureola di capelli castani che portava attorcigliati dalle tempie alla nuca.

In aula indossava un grembiule nero ingentilito da un collettino bianco di pizzo. Era di origine ebrea, non so se scampata all'orrore dei lager, ma sicuramente reduce da un lungo periodo di sfollamento nelle campagne piemontesi di cui serbava un riconoscente ricordo. La somiglianza con la sorella gemella Gina anch’essa docente di lettere nella stessa scuola era tale che in occasione di una momentanea sostituzione in classe, noi alunni facevamo difficoltà a distinguere l'una dall'altra figura.
Per noi alunni era un mito, una figura affascinante, dotata di un carisma fatto di semplicità, di antiretorica, di preparazione culturale, di sensibilità umana, di un altissimo senso del dovere e della giustizia. Riusciva a trasmettere il rispetto e la devozione per sé e per la sua professione col semplice fatto di essere presente. Spiegava in modo efficace, essenziale, convincente.

La sua didattica, si direbbe ora, era certamente di stampo tradizionale. Di quel tipo che tante volte, nel corso della mia futura attività professionale, ebbi a criticare; debbo però riconoscere che nel caso della professoressa Allan c'era come un carisma del tutto personale che trascendeva la routine scolastica dell'epoca e che faceva della sua prestazione un fatto assolutamente unico.
Per me che venivo da una brutta esperienza di scuola elementare rurale gestita da una maestra autoritaria e manesca rappresentò l'aprirsi di un orizzonte nuovo; acquistai fiducia in me stesso e nello studio, metabolizzai valori che per tutta la vita mi avrebbero accompagnato.

E dire che la scuola media di allora - nata dalla Riforma Bottai come trasformazione dell'antico ginnasio inferiore - era tutt'altro che facile. Vi si accedeva dopo un rigoroso esame di “Ammissione” al termine del quinto anno di scuola elementare, esame sostenuto di fronte ad una commissione tutta esterna, presso la scuola media cui si voleva accedere. Fin dal primo anno era previsto lo studio sistematico del Latino. All'esame di Licenza media si portava un buon numero di pagine del De bello gallico di Cesare, delle Elegie di Tibullo, delle Favole di Fedro e delle Vitae di Cornelio Nepote. Erano previste sei prove scritte (due di latino, il tema, la prova di matematica e due tavole di disegno).

La selezione era rigorosissima e i professori erano tenuti a esercitarla. Ma il segreto di Miriam Allan, pur rispettosissima dei suoi doveri, consisteva nel non abbandonare mai la sua carica di fiducia e di comprensione, il suo rapporto affettivo: ciascun allievo accettava il suo giudizio come l'unico giusto e possibile. Il tratto distintivo della sua relazione educativa si manifestava attraverso un riserbo che non era un distacco, ma una forma di rispetto denso di affetto e di attenzione.
Mai disse una parola, lei ebrea, sui terribili episodi delle persecuzioni razziali allora da poco trascorsi. C'era, all'epoca, come un pudore da parte delle stesse vittime a raccontare, un tentativo di rimozione come per stendere un velo su ferite ancora brucianti. Ne parla Primo Levi nel libro I sommersi e i salvati, là dove tratta del tentativo di esorcizzare esperienze e ricordi di traumi, unitamente ad un incomprensibile e quasi contraddittorio senso di colpa per le angherie subite e per essere sopravvissuti alle stesse.

Un solo cenno all'olocausto da parte dalla professoressa Allan. Commentando la pagine del testo di Geografia antropica relativo alla quantificazione degli adepti alle varie religioni, quando si trattò dell'ebraismo sussurrò con la solita sua dolce voce: “Cancellate quella cifra e diminuitela di sei milioni”. In classe corse un brivido di silenzio. Nessun ulteriore commento.
A distanza di oltre sessant'anni conservo ancora quel testo e quella pagina ingiallita, col tratto a matita della correzione.