Alla fine degli anni Ottanta ci trascinarono tutti in una valanga di corsi di aggiornamento per gettare le fondamenta di una scuola che noi, a Torino, con i nostri progetti sperimentali, i gruppi di livello, l’insegnamento individualizzato e i team fra classi parallele stavamo già ristrutturando. Alle nove del mattino ci piazzavano davanti a un televisore a circuito chiuso e fino a mezzogiorno stavamo lì a lasciarci insegnare come si insegnavano le scienze, la geografia e la storia nei paesini di Revello, Rifreddo e Vicoforte: un maestro serafico attorniato da una decina di scolari bianchi e rossi come mele, paciosi e assonnati nei grembiulini lindi, timorosi di alzare la mano e di far uscire la voce. Ambienti bucolici che noi avevamo dimenticato guadagnandoci il pane alle Vallette, al Sangone e alla Falchera. Alla lezione del collega televisivo seguivano commenti di pedagogisti, scrittori, accademici che noi dovevamo assorbire come spugne; infine, come nei cineforum della migliore tradizione, il nostro dibattito (che preludeva ad una relazione scritta). Poichè le proiezioni e i corsi raggruppavano scuole vicine o di quartieri confinanti, accadeva di ritrovare collegi d’insegnanti di cui s’era fatto parte in passato o di rivedere colleghi trasferiti. Tornando in una scuola periferica dov’ero rimasta un anno, all’inizio della mia carriera, mi accorsi dell’assenza di un anziano maestro napoletano e domandai se fosse andato in pensione.
– Noo! – mi risposero. – È nell’isola.
– Dove?...
– Nell’isola... Da quando gli è morta la moglie è sprofondato in depressione: non poteva più insegnare nè stare a casa, così ha ottenuto il distacco e gli abbiamo inventato un laboratorio apposta per lui... Son due anni che ci lavora...
– Ma in che cosa consiste?
– Vai a vedere, diamine! Vale la pena. Su al terzo piano. Una volta la settimana tutte le classi fanno il giro a costruire qualcosa; e quando c’è qualcuno irrequieto lo mandiamo su a sfogarsi un po’. Lui gli fa fare un pupazzo di carta macerata, poi in realtà lo distrugge e lo fa meglio. La sua isola dev’essere un capolavoro. Va’ a vedere... È la sua ragione di vita...
Bussai alla porta del laboratorio e mi trovai ai piedi un plastico di venticinque metri quadrati: un’isola sbocciata dal pavimento con tutte le sue increspature di cartapesta, e palme di un metro, e scimmie appese alle palme, e noci di cocco nelle zampe delle scimmie, serpenti di bicchierini di plastica verniciati che si srotolavano a terra, tucani occhieggianti dall’intrico di una vegetazione di trucioli, paglia, rafia colorata, giraffe di turaccioli e legno. Un gruppo d’indigeni con arco e faretra nel folto, un altro intorno a uno specchio d’acqua di stagnola; donne col turbante sedute fuori di un villaggio di paglia intente a cucinare in vasi di creta, contrassegnati da incisioni: IV A, V B, III C... e piccoli selvaggi asessuati con i capelli di lana che giocavano nudi.
– Grandioso! – esclamai sbalordita.
Il collega m’illustrò le zone di cui s’era arricchita successivamente la sua isola come Cupiello mostrava e interpretava il suo presepe.
– E poi qui, in questo punto, – mi confidò in una specie di complicità, – se i colleghi mi lasciano, vorrei tirare su una missione, con la chiesa, il sacerdote e la scuola cristiana... Ma devo chiedere il permesso per non offendere nessuno –.
Lodai la cura, la pazienza, l’abilità nelle tecniche impiegate, che spaziavano dalla manipolazione alla pittura alla falegnameria al cucito.
– E hanno fatto tutto i bambini? – chiesi.
– Beh, i bambini fanno... fanno quello che possono... poi io ritocco, perfeziono quando se ne vanno.
Valeria Amerano
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