Non ho mai tenuto animali domestici pur amandoli molto. È stata una privazione del vivere in città, che ha esaltato i ricordi d'infanzia nella casa dei nonni dove la compagnia di cani e gatti si completava con i vari altri, non meno interessanti e curiosi, soggetti da stalla e da cortile. Escluso di ospitare sul balcone di città una covata di pulcini o un vitellino, che pure mi sanguinava il cuore a lasciare là ogni volta che ne nasceva uno, dovetti fare i conti sempre con un irremovibile rifiuto da parte dei miei genitori di imbarcare in casa nostra un quadrupede, sia pure di piccola taglia.
Mio padre soffriva terribilmente gli odori; inoltre adduceva a scusa la schiavitù, dell'animale e nostra, in un piccolo alloggio come quello in cui abitavamo, per dissuadermi dal volerne. "I cani stano bene con un giardino davanti, hanno bisogno di spazio e libertà per i loro bisogni: non devono aspettare il nostro comodo per fare due passi e tutto il resto". Ma il gatto non doveva scendere, bastava la sua cesta...
A nominare il gatto saltava su anche mia madre: "Il gatto puzza; sia pulito finché vuole, nei palazzi dove ne hanno uno senti già l'odore dall'androne, specie quando sta per piovere". Anche in seguito, quando avrei potuto decidere di avere un cane in una casa mia, vi ho rinunciato: per pigrizia, credo, un filo di egoismo e troppo amore per il mio scarso tempo libero.
Da sempre nutro con affetto i passeri che frequentano il mio balcone, e aspetto ogni anno di veder i piccoli che gli adulti vengono a imboccare delle mie molliche sminuzzate. Una tradizione che doveva riservarmi qualche sorpresa.
Tornata dal mare dopo due settimane di assenza, sul balconcino del tinello, in un angolo di pavimento stretto fra la scarpiera, il pilastro portante e una parete di vetro, al centro di una corona di rametti intrecciati, biancheggiavano due uova. Sull'angolo del balcone un colombo mi ammoniva con verso allarmato e minaccioso. La mia casa era diventata il luogo prescelto per la sua. Non sono riuscita a restare indifferente alla novità, e in fondo un nido è sempre un nido: uno sforzo, una necessità, una spinta naturale. Due uova sono una promessa, un abbozzo di vita, qualcosa che attende cura. Non mi era mai capitato di seguire una schiusa; mi seccava solo che avessero scelto proprio il mio balcone.
Escludendo di seguire i consigli disinteressati di chi mi invitava a raccogliere e buttare tutto nella spazzatura prima di naufragare nel guano, ho cominciato a rassegnarmi e a dispormi, con curiosità e tenerezza, ad osservare le fasi della cova. È stato istruttivo e oneroso. Intanto i genitori si alternavano sulle uova in uno scambio paritario di ruoli; si allontanavano soltanto (con vivissime proteste) quando mi vedevano intenzionata a togliere e sostituire i giornali con cui avevo cercato inutilmente di proteggere il pavimento. Una fabbrica di escrementi, sì: aveva ragione chi aveva cercato di mettermi in guardia. Ma ormai mi ero calata, mio malgrado, nei panni dell'etologa e sempre più spesso pensavo a Konrad Lorenz, alla sua casa libera alla circolazione degli animali e alla divertente trovata della "gabbia all'inverso", concepita per mettere al riparo la culla col bambino dentro, mentre i corvi, la scimmia e le oche selvatiche si aggiravano tranquillamente in casa e fuori.
Dopo una ventina di giorni sono comparsi due paperi fioccosi giallo grigiastri, brutti, inespressivi, palpitanti e dal becco sproporzionato. Si scaldavano stando premuti l'uno all'altro, incrociati come i pesci della costellazione. Li ho fotografati, nonostante il disturbo.
Il via vai dei genitori per nutrirli procedeva instancabile, e così la mia opera di pulizia sommaria.
Sebbene avessi partecipato al mantenimento dell'intera famigliola con molliche e legumi secchi, non vedevo l'ora che prendessero il volo tutti assieme per smontare la baracca, farmi prestare da mia madre il bernage (paletta di ferro usata dai miei nonni nel focolare) per raschiare la soletta di guano che si era formata e cambiare l'assetto che avrebbe impedito in futuro la costruzione di altri nidi sul mio territorio.
Dal pavimento alla sommità della scarpiera il primo volo del più audace dei due, mentre l'altro rimaneva sotto a guardarlo, a cercare il coraggio di aprire le ali e di tentare anche lui. Poi una lunga sosta dei due fratelli sulla ringhiera a guardare giù, a misurare la distanza della rampa di lancio dai tetti dei garage, in cortile. Sarebbe diventato il loro povero mondo: cortili, tetti, verande, uno scampolo di parco al di là della strada e fontanelle. Lontani da me e da loro le distese verdi dei campi con boschi veri e corsi d'acqua: tutti fratelli, in città, di una natura in scatola. Sono partiti, infine, e con sollievo ho ripulito. Ma me l'avevano detto: "Non dimenticano facilmente dove sono nati. Di solito ritornano". E al tramonto eccoli schierati, tutti e quattro, sull'orlo del garage più vicino al mio balcone, fiduciosi e pronti a spiccare il breve volo per venire a dormire a casa.
Gli animali non capiscono degli uomini i contratti a tempo e la solidarietà che può interrompersi prima della fine dei loro bisogni. Continuo a ricoprire tutto di vecchi giornali e, al mattino, non mi resta che avvolgere le tracce dei miei ospiti e sostituire la carta per la loro prossima notte di sonno, d'invidiabile regolarità intestinale e forse di amore.
Valeria Amerano
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