Noterelle in margine ad una visita al Museo della Scuola di Torino (II parte)

Nel precedente numero del Notiziario ho cercato di esaminare, per sommi capi, il clima che fa da cornice alla scuola di fine Ottocento, quale è dato cogliere nel Museo di Palazzo Barolo; ora vorrei brevemente occuparmi di alcuni risvolti didattici che subito colpiscono il visitatore al suo primo ingresso.

Se fra qualche decennio dovessimo allestire una sala espositiva che testimoniasse, in modo significativo per i posteri, la travagliata nostra scuola dei primi anni del 2000, dopo aver collocato un PC, un video proiettore, una fotocopiatrice e le stampe di alcuni ipertesti, avremmo difficoltà ad individuare altri oggetti atti a testimoniare la specificità dei nostri ambienti educativi.

Colpisce, invece, del nostro museo, la stragrande varietà e molteplicità di oggetti, di sussidi didattici, di cartelloni, di illustrazioni, di strumenti di ogni genere, approntati distintamente per ogni disciplina di studio. Viene spontanea l’osservazione: ad ogni nozione, concetto, fa riscontro un oggetto reale, concreto che offre il punto di partenza per l’elaborazioe di un simbolo, che aiuta la formalizzazione di un concetto. È la caratteristica più evidente e scontata della scuola positivista, della "lezione di cose" che tendeva a combattere il verbalismo fine a se stesso per riscoprire il fondamento sensoriale dell’apprendimento. Torna subito alla mente il riferimento alla gnoseologia aristotelica. "Nulla vi è nella mente che non passi prima attraverso i sensi".

La scuola positivista più che aprirsi al mondo, nel senso fisico della parola, ha portato il mondo dentro la scuola. Talvolta mi viene da pensare, provocatoriamente , che molta nostra didattica non abbia ancora scoperto la positività della lezione positivista. È fuor di luogo, nè risponde al mio intendimento, tessere l’elogio di quella scuola, che conobbe, peraltro, il limite di un esasperato nuovo nozionismo – mi si passi l’ossimoro – "il nozionismo delle cose" dopo quello delle parole che intendeva combattere, che trascurò i concetti di motivazione all’apprendimento, di individualizzazione, di creatività, ecc…

Qui voglio semplicemente prendere spunto per riflettere sul totale capovolgimento dello scenario dell’apprendimento che si sta verificando nella nostra scuola oggi, nell’era del virtuale. Affascinati dalla magia del "virtuale" che vorrebbe fare del computer il cardine dell’apprendimento, dimentichiamo che la conoscenza presuppone un rapporto essenziale ed insostituibile con la realtà fisica, sociale, sensoriale, ambientale.

Ai nostri bimbi, spesso, questo rapporto è negato o estremamente ridotto. Fin dalla culla sono sottoposti alla tirannia dei mass media, chiusi in scatole sempre più possessive. L’alloggio, l’auto, la scuola. Conoscono il mondo solo attraverso la rappresentazione che altri ne fanno. L’unica finestra aperta sulla realtà è costituita dal rettangolo scintillante di un monitor, l’unico tempo è quello manipolato dai cartoni animati, l’unico spazio è quello percorso dalle automobiline elettriche giocattolo. Il mio discorso non vuole avere nessuna dimensione moralistica: è solo una riflessione che attiene ai processi di conoscenza.

Quel che più preoccupa è il fatto che gli adulti, gli educatori sembrano non avvertire il pericolo di una deformazione dei processi di conoscenza dove le categorie di spazio, tempo, causalità sono appiattite ed assorbite nell’allettante, colorata marmellata del virtuale. Non si tratta di assumere atteggiamenti apocalittici, nè di bandire dalla scuola i mass media. Occorre però rammentare che il primum conoscitivo è costituito dall’esperienza diretta agita sulla "realtà reale".

Gli strumenti del virtuale possono essere utili sussidi da avvicinare in un secondo tempo per allargare la propria esperienza, laddove, per contingenze di tempo e di spazio, l’esperienza diretta del reale non è più possibile.

Il computer è dunque un mezzo, nulla più, che noi dobbiamo saper dominare dopo che i processi di concettualizzazione sono ben solidamente conquistati da parte del bambino, proprio come la lettura e la scrittura assumono valore culturale se ci consentono di esprimere un mondo di conoscenze che le nostre esperienze di vita ci hanno permesso di elaborare. Il migliore documentario naturalistico non vale una passeggiata all’aria aperta in cui siamo noi ad interrogare la natura, a soffermarci sul particolare che ci interessa, a porci un problema, a tentare ipotesi e soluzioni, a cogliere i tanti messaggi che l’ambiente ci trasmette. Più in generale, ogni disciplina, come è noto, costituisce un modo organizzato di osservare e formalizzare la realtà. La scuola è deputata a far questo, o non è scuola. Ogni disciplina prevede però un patrimonio di "oggetti privilegiati" su cui focalizzare lo sforzo cognitivo. Così la Storia ha necessità del documento e della testimonianza, la geografia dell’osservazione ambientale, le scienze dell’osservazione dei fenomeni, la letteratura dell’interpretazione diretta dei testi e dell’espressione dei nostri vissuti, la matematica, almeno a livello elementare, della quantificazione della realtà.

Se si dimenticano questi banali assunti si ripiomba nel più vieto astrattismo, proprio quello che la didattica positivista volle bandire. Voglio trarre, per concludere il nostro discorso, una riflessione pedagogica dall’ultimo capolavoro del regista Ermanno Olmi: "Centochiodi". Le grandi narrazioni hanno il valore di metafore, rappresentano modelli di vita che costituiscono, se accettati, preziosi punti di riferimento. Nel film, un giovane e colto docente universitario rinuncia alla cultura del libro, delle sintesi fatte, per immergersi totalmente nel vissuto, in un contatto totalizzante con la natura e gli uomini, rifiuta ogni ulteriore mediazione che faccia da filtro tra se stesso e il mondo.

Se dovessimo adattare alla scuola la metafora di Olmi, dovremmo pensare di fondare la conoscenza sulla realtà ambientale e sociale, di pensare al libro come un punto di arrivo, di creare condizioni di esperienza e di utilizzare i mass media come docili strumenti per avvicinare, non per esorcizzare la realtà.

A scanso di equivoci: non penso ad una scuola tutta ancorata al presente, al sociologismo che aborra la simbolizzazione, il pensiero astratto, ma che sceglie, per raggiungerli, la strada più naturale . Quel che non va dimenticato è il percorso che va dalla esperienza al simbolo. Ben venga il virtuale alla condizione che ci aiuti in questo percorso e non si sostituisca ad esso.

Gianluigi Camera