Conosce meglio lui le tue abitudini di chi ti vive accanto. Sa a che ora esci al mattino, se sei sola, se hai sempre lo stesso cappotto, se ti sbarazzi dell'immondizia in un unico bidone o la ripartisci badando alla natura dei rifiuti. Vede se hai l'auto o vai a piedi, se hai il cane da portare giù. Sa cosa compri e dove, conosce gli amici e i parenti con cui ti accompagni. Lui è lì, ogni giorno, davanti al supermercato, con una ventina di articoli ordinati su un fazzoletto di stoffa aperto sul marciapiede, a opporre alla tua fretta il tempo lento e uguale dell'attesa mansueta e paziente del venditore clandestino. Ti riconosce, ti sorride, ti saluta. È umile, gentile, senza pretese, a presidiare in piedi quel ritaglio di marciapiede usurpato, quel patetico, penoso commercio in scala di mollette colorate e fazzoletti di carta con i quali spera di attingere anche lui al "benessere italiano". Dal sogno si è già svegliato. Ha trovato ad attenderlo una realtà diversa da quella immaginata e promessa di lontano, condizioni dure e selettive per restare onesti e in salute. Ore e ore di freddo che sfinirebbero una bestia a scalpicciare per sentire ancora i piedi, addosso in inverno lo stesso giubbotto della primavera (a significare che se in una stagione trema nell'altra suda), stamberghe fatiscenti pagate a prezzi vergognosi e debiti verso chi ha saputo dissanguare la sua sventura per farne la propria fortuna. In principio lo tolleri: "Eccone un altro", pensi, "si danno il cambio". La prima era stata una donna senegalese con un bambino da allattare più chiaro di lei: figlio di un italiano che l'aveva usata e poi lasciata ai suoi guai. Lo aveva allevato lì sotto gli occhi di tutti e con l'aiuto di tutti; aveva ricevuto cibo, indumenti, passeggini e tricicli. Poi qualcuno le aveva sistemato le carte, trovato un'occupazione e un posto all'asilo per il piccolo, che nel frattempo aveva imparato a camminare e a parlare una strana lingua mezza italiana, mezza africana con buffi assalti di piemontese: "Ciau mussù, ciau madamin". A poco a poco il paesaggio assorbe anche quest'ultimo venditore. Diventa una presenza familiare e costante. Col suo bisogno, la sua disperazione e la sua marginalità è anche lui un segno del nostro tempo, una pagina di storia graffiata sulla pelle più esposta. Vinci la diffidenza e il fastidio iniziali, e pensi che in fondo bastava nascere nel posto sbagliato, secondo la lotteria del caso che ti assegna genitori, paese, governi e religione, per essere oggi al suo posto. Un po' la sua sfortuna ti urta, diventando uno specchio ingombrante nel quale sei obbligato a considerare i vantaggi che non vedi più, l'agio di cui ti lamenti, la normalità invidiosa di esistenze più comode. Devi ammettere che nella corsa non sei l'ultimo: lui è rimasto tanto più indietro di te. Negli anni Cinquanta e Sessanta il forestiero a Torino era il fratello italiano che scendeva a Porta Nuova dai Treni del Sole: solitamente corto, bruno, atticciato, con idiomi rinserrati che agli indigeni bastavano per sentenziare: African, Arabi, Mandarin, Maumau l'intera popolazione risalente la penisola.
Poi fu come mescolare in una grande cesta le mele raccolte. Alla fine, più nessuno si curava di sapere da quale albero si fossero staccate. I Mandarin diventarono i nostri cognati, le nostre nuore, i nostri capi, i medici cui affidavamo la nostra salute. Nomi come Lo Turco, Caruso e Paternò designano da quarant' anni nativi di Torino, e ormai siamo rimasti in pochi a riconoscere i cognomi di ceppo piemontese. Il giovane all'ingresso del supermercato osserva, pieno di calma africana, la vita intorno; a volte azzarda due parole a chi non finge di non vederlo: - Ciao. Come stai? Fa freddo... Dove hai lasciato mama?-. Sorridi e gli rispondi. Ma lui di dove viene? Marocco. Vive con un cugino a Mirafiori. Gli lasci qualche monetina, che accetta con dignitosa gratitudine. Non ha l'aria ignorante, è educato; ha sulla faccia una tenacia rassegnata. La prossima volta, per non offenderlo, acquisti mollette e spugne di cui non hai bisogno o gli offri dei frutti appena comperati. Ti ringrazia, e li ritira nella sacca. Le donne anziane sono le più loquaci. Se è vero che sono le più facili da ingannare da parte di farabutti travestiti da vigili, è anche vero che solidarizzano con chi resta in silenzio nell'angolo, puntualmente escluso dalla società; abituate anche loro alle briciole di affetto, sono sensibili al suo saluto, alla mitezza dello sguardo, al gesto gentile di riporre il carrello vuoto della spesa. Forse vedono nella sua l'immagine peggiorata e dilatata della propria solitudine. Alcune gli chiedono di reggere la borsa pesante fin sotto il portone e lui lascia la povera mercanzia sul marciapiede per seguirle. Spera in un piccolo compenso, che viene e gli stampa un sorriso mentre torna indietro a governare il suo "tesoro". Si chiama fiducia il primo passo verso l'accoglienza; e non è solo la vecchietta in difficoltà a dimostrarla, ma anche il marocchino che lascia incustodita la sua roba. Un mattino lo incroci in sella a una bici Graziella esumata da qualche cantina: ti saluta ridendo di se stesso e della novità: qualcuno gliel'ha regalata ed è rimasto a guardargli la merce mentre lui fa un giro di prova sul marciapiede intorno all'isolato. Non è molto sicuro, come chi ha imparato da poco e mantiene un equilibrio precario; ma è bella la sua gioia tardiva per una sensazione che noi abbiamo mille volte dimenticato. Finché un giorno accade un piccolo miracolo che, fra tante storture, ti arreca un sollievo. Mescolato ai giovani che lavano la scala del condominio dove abiti, c'è anche lui, assunto dall'impresa di pulizie. È un saluto diverso che vi scambiate, di sorpresa e piacere: il soddisfatto riconoscimento di una mutata condizione sociale. È ancora maldestro con scope, aspirapolvere, lucidatrici e piumini, ma si impegna; e tu non stai a guardare troppo per il sottile se nei primi tempi l'ottone del corrimano non è tanto lucido e l'acqua dello straccio mal strizzato è colata lungo il fianco della scala. Migliorerà. È stato strappato alla strada, a insidie e ingranaggi illegali, ora procederà con le sue forze e non per la carità degli altri. Va a scuola di sera: vuole "imparare meglio Italiano". E ci riesce. Sono passati anni da quando lo hai visto la prima volta ragazzo, coi riccioli stretti, la barba rada di adolescente, gli occhi bruni luminosi e la voce che stava cambiando. È cresciuto. Ha preso la patente e il principale dell'impresa gli lascia guidare il furgone. Lo incroci nell'atrio. Ti saluta espansivo, entusiasta di ogni piccolo progresso come qualsiasi altro giovane: affacciato alla vita.
- Vendo anche la stoffa adesso: tende, asciugamani e tovaglie per la casa. Aiuto uno che ha il banco al mercato... Se hai bisogno, dimmelo.
- Grazie. Me ne ricorderò. Ti dai molto da fare, vedo...
- Sì, voglio risparmiare qualcosa. Affitto è molto caro.
- Bravo.
Vorresti salutarlo per nome: - Non so più come ti chiami. Me lo hai già detto, ma... non mi viene in mente.
Lui sorride e capisce che sarebbe inutile ripetertelo (alle nostre orecchie i nomi musulmani si somigliano tutti): - Nella tua lingua mi chiamo Simone.
Valeria Amerano
dall'antologia «Scrivicollegno» ed. Neos (dell'omonimo premio 2010)
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