Era la primavera del 1963. Andavo al catechismo a Santa Rita per prepararmi, con le mie coetanee, alla prima Comunione. Un pomeriggio i sacerdoti ci radunano tutte insieme in uno stanzone e ci fanno vedere due bambine con addosso due diversi abiti da novizie. Dovevamo indicare il modello preferito alzando la mano e scegliere così, secondo il voto della maggioranza, l'abito della nostra prima Comunione. Tra l'entusiasmo si levò qualche perplesso: "Ma io ho quello di mia sorella... di mia cugina... Io non so se mamma vuole..." I due vestiti, di lanetta color panna, avevano una foggia da saio con maniche a campana, bordi e cintura di gallone dorato, croce dorata sul petto. Si differenziavano nell'acconciatura: uno si completava con il velo, l'altro con un fazzoletto da castellana sormontato da una specie di cercine. Votammo per il velo e tornammo a casa con la novità. Mia madre saltò su come una molla. Come sarebbe, dovete vestirvi come dice Don Mike?! Lei, sarta accurata, aveva vestito spose, bambine, donne di ogni età e volume, neonati per i battesimi, e adesso doveva andare a comprare il modello e la stoffa dalla signora della scuola di taglio prescritta dalla Parrocchia?Chi osava sconfinare nel suo campo e soprattutto ordinarle di abbigliare sua figlia come piaceva a lui? Il giorno dopo era in sacrestia. Aveva in comune con Don Mike il dialetto e, essendo lui di Volvera e lei di None, la corsia privilegiata di una vicinanza circondariale.
"E allora?" domandò schietta, "non ne abbiamo portate abbastanza di divise?..."
Lui sorrise: "È per non creare differenze tra vestiti belli e vestiti brutti".
"E per farne comprare un altro a chi utilizzerebbe volentieri quello della figlia maggiore... Se è per non fare differenze, mandiamole col grembiulino della scuola pulito e stirato!"
"No, perché è una cerimonia ed è giusto che siano vestite da festa".
"Intanto per vestirle tutte uguali la scuola di taglio ci guadagna... Io non so se la vestirò così".
"Vuol dire che se avrà un abito diverso la metteremo nell'ultimo banco".
"Fareste bene a confezionarne quattro o cinque per prestarli a chi non se lo potrà permettere... o alla fine ce ne saranno parecchie nell'ultimo banco".
Mia madre masticò amaro e alla fine mi confezionò col massimo impegno, sebbene a malincuore, l'abito che la chiesa stabiliva, con quella croce dorata sul petto che non le piaceva addosso a una bambina di sette anni. Grazie ad alcuni accorgimenti che erano il tocco segreto della sua abilità, il vestito cadeva dritto come un filo a piombo, il gallone in vita non si arrotolava e le maniche non risalivano al primo movimento maldestro.
Qualche tempo dopo andammo a trovare la superiora dell'Istituto Prinotti, nei pressi di piazza Bernini, dove abitavamo prima di trasferirci a Santa Rita. Le suore erano ricamatrici eccezionali che in più di un'occasione avevano eseguito ricami raffinati per la mamma e le sue clienti. Esisteva fra noi e loro un rapporto di affettuosa cordialità che rinnovavamo con saltuarie visite, non esclusivamente legate a commissioni di lavoro. Per la mia prossima Comunione la superiora mi aveva regalato un libriccino di preghiere con la copertina madreperlata e io le avevo promesso di portarle una mia fotografia di quel giorno. La mamma fece di più: portò il vestito, ed esse rimasero ammirate. Me lo fecero indossare e mi accompagnarono nelle classi affinché gli alunni mi vedessero. Le maestre dicevano che sembravo una madonnina delle catacombe. Io ero emozionata e vergognosa, ma soprattutto stupita dalla difficoltà con cui i bambini sordastri, invitati a ripetere, pronunciavano "Ca-ta-com-be". Nella loro bocca le parole avevano un corpo duro e spigoloso come sassi. La superiora decise di adottare anche per il Prinotti quell'abito da prima Comunione e la mamma, precisandone la provenienza, le regalò volentieri il modello, ché lo copiasse e lo diffondesse pure, in barba alla scuola di taglio di Santa Rita.
Valeria Amerano
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